La storia di Dino

DINO EREZ DI VEROLI – ISTRUTTORE

Di padre italiano e mamma persiana è nato e cresciuto in Israele, società multiculturale che gli ha permesso di conoscere tante realtà differenti e di studiare, oltre all’inglese e all’ebraico, anche l’arabo, lingue che ancora oggi lo aiutano nelle lezioni Kids Kicking Cancer con i bambini provenienti da Paesi diversi e che non conoscono l’italiano. Appassionato di arti marziali e portato per l’insegnamento anche grazie all’incontro con grandi maestri di cui ha sempre desiderato ricalcare le orme, Dino ha praticato karate da piccolo, krav maga e taekwondo da grande; a sedici anni ha preso il primo diploma da insegnante, in seguito è diventato guida giovanile per bambini con un diploma riconosciuto dal Ministero dell’istruzione israeliano; oggi è insegnante di arti marziali.

 

Sono venuto a conoscenza dell’associazione Kids Kicking Cancer da una rivista intitolata “Shalom”, un mensile della comunità ebraica romana alla quale ero abbonato. L’articolo mi stupì. Parlava di un rabbino che, con tecniche di arti marziali, aiutava i bambini a combattere la loro malattia, il cancro. Era in programma un corso di formazione per diventare Martial Arts Therapist (MAT). Lì per lì, leggendo i requisiti richiesti, pensai che quell’articolo sembrava destinato proprio a me: ero insegnante di arti marziali, avevo alle spalle una vasta esperienza con i bambini nelle palestre e nelle scuole, insegnavo il taekwondo come attività sportiva in una scuola elementare di Roma e avevo voglia di aiutare coloro che combattevano il cancro, visto che la mia famiglia, prima che diventassi Martial Arts Therapist, era stata colpita da questa malattia diverse volte.
Fui l’unico, fra coloro che avevano letto l’articolo, a iscriversi al corso. Il mio primo giorno da Martial Arts Therapist, all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma – ospedale dove presto il servizio di volontariato tuttora – alla mia prima lezione incontrai Matteo. Lui era troppo impegnato con il suo videogioco per darmi retta, non era interessato ad altro, aveva uno sguardo apatico, giocava senza troppo entusiasmo. Mi avvicinai e gli chiesi se potevo vedere il gioco che stava facendo. Egli annuì e mentre mi stava spiegando il gioco, mi accorsi che era distratto dal “colpitore” che tenevo in mano proprio vicino a lui. Quando la sua curiosità ebbe il sopravvento, lo indicò e mi domandò che cosa fosse. Per me era fatta, per me era il segnale dell’inizio della lezione, visto che per formazione ho imparato che se devi insegnare qualcosa a un bambino è meglio fare in modo che sia lui a chiedere qualcosa, lui a fare domande.
Quando lasciai la stanza quel primo giorno, Matteo aveva uno sguardo ben diverso da quello che aveva al mio arrivo: l’apatia si era dileguata dai suoi occhi e il suo viso sorridente dimostrava che la sua anima aveva ritrovato una certa serenità. Aveva fatto qualche esercizio di karate, poi mi era apparso chiaro che aveva soprattutto bisogno di colpire qualcosa. Perciò, con le dovute precauzioni e utilizzando la tecnica del respiro diaframmatico accompagnata da esercizi di “visualizzazione” (che sono la base della meditazione), ci siamo preparati a colpire il “colpitore”, molto morbido, perfetto per queste circostanze. Già al primo colpo capii che Matteo si era liberato da un certo peso; poi, mano a mano che andava avanti a colpire, il broncio si tramutò in un sorriso e poi in una risata quando riuscì a farmi schizzare via dalle mani il colpitore. Con il tempo, Matteo e io siamo diventati maestri uno dell’altro: mentre io gli insegnavo a combattere emotivamente la sua malattia, lui insegnava a me il vero significato della parola “coraggio”. Anche se in seguito ho ritrovato quello stesso coraggio in tanti ragazzi costretti, come lui, a combattere la medesima malattia, non ne avevo mai visto tanto in vita mia prima di conoscere Matteo. Matteo, benedetta sarà la sua memoria, mi ha insegnato tante cose, una delle quali è di non cedere di fronte a un rifiuto apatico da parte di pazienti-combattenti simili a lui. Oggi, a distanza di circa quattro anni, prima di ogni mia lezione penso ai suoi insegnamenti e ogni volta che incontro l’apatia nei piccoli eroi, faccio di tutto per sconfiggerla. Solitamente, quando devo illustrare la nostra attività alle persone che non fanno parte del “Circolo degli Eroi”, racconto la storia di Giulia “la Tigre”. Mi aveva contattato personalmente, dopo che una sua amica ricoverata all’ospedale Bambino Gesù che aveva fatto una lezione con me, le aveva raccontato della nostra attività. Come Matteo, Giulia combatté la sua malattia con una forza incredibile, dimostrando un coraggio e una determinazione esemplari, soprattutto perché conosceva molto bene la sua malattia: era la stessa che, prima di portar via lei, le aveva portato via sua sorella qualche anno prima. Benedetta sarà la loro memoria. Con le nostre lezioni anche gli eroi più arrabbiati riescono a calmarsi. Ciò spinse i genitori di alcuni di loro a chiedermi di andare a fare le lezioni anche a casa; così, dopo essermi consultato con l’associazione KKC e aver chiesto il permesso per seguire alcuni eroi fuori dall’ospedale diedi il via al progetto “one to one”, che è tuttora attivo. Il mio primo allievo a essere seguito in quel progetto fu Oliviero, seguito da Gregorio, Dario, Alessio, Valerio, Davide. Nel 2016 ho dato inizio a un nuovo progetto: in accordo con il presidente dell’associazione “Davide Ciavattini”, aiutato di tanto in tanto da altri Martial Arts Therapists, ho iniziato a fare lezioni presso “Casa Ciavattini”, una casa famiglia che ospita le famiglie che vengono da lontano e che necessitano delle cure presso l’ospedale pediatrico Bambino Gesù. Qui continuano a frequentare le lezioni di arti marziali anche alcuni eroi che vivono a Roma e che ormai vanno all’ospedale soltanto per i controlli periodici. Uno di loro è Davide, un vero guerriero di circa quattro anni. Lui partecipa attivamente e con passione alle lezioni e se sua mamma ha degli impegni che le impediscono di accompagnarlo, per non deluderlo gli mente, dicendogli che a non poter venire alla lezione sono proprio io, l’insegnante! Un altro ragazzo cui mi sono affezionato in modo particolare fin dall’inizio è Dario. Di lui mi ha immediatamente colpito lo sguardo penetrante e il suo modo di fare molto sicuro di sé, tipico di uno non disposto a compromessi. Quando i suoi genitori mi videro nel corridoio dell’ospedale, mi chiesero di fare lezione anche a lui. Erano convinti che fosse la cosa giusta da fare. Così, entrai nella sua stanza e rimasi affascinato: i suoi occhi intensi e la sua capigliatura castano chiarissimo, che da lì a poco avrebbe perso, in quell’istante mi fecero pensare a un leone. Dario e io entrammo in sintonia quasi subito, perciò ogni volta che andavo all’ospedale, cercavo di tenergli io stesso lezione. Riuscii a fargliele persino dopo il trapianto, al M.I.T.A, dopo aver ottenuti i debiti permessi. Quando suo padre mi chiese di andare a casa loro per tenergli altre lezioni, accettai lusingato. La prima volta, ancora prima di entrare in casa, sentii Dario litigare e strillare contro la sua mamma, che mi stava facendo entrare e vedere dove era il bagno per lavarmi delle mani (pratica che noi MAT adottiamo di protocollo prima di ogni lezione). Dario, fuori di sé, se ne andò a letto e si tirò le coperte fin sopra la testa. Non era disposto ad accettare altri cambiamenti nella sua vita privata e la mia visita a domicilio rappresentava una vera invadenza che lo rendeva furioso. Gli dissi che ero venuto per salutarlo da amico, non da maestro e che lo avevo fatto perché avevo voglia di incontrarlo. Sentendo la mia voce, Dario si scoprì la testa e si calmò un poco, poi mi fece vedere la sua stanza e mi raccontò delle sue passioni (è un esperto collezionista). Benché l’inizio fosse stato burrascoso, anche in quell’occasione lavorammo insieme e ci accordammo per le lezioni successive. Visto che non abitavamo lontano, presi ad andare a casa sua una volta alla settimana. In queste occasioni, a fine lezione, dopo gli esercizi di rilassamento, Dario mi raccontò nel dettaglio come riscontrò la malattia, dov’era quando gli fu diagnosticata e, soprattutto, quali furono le reazioni sue e della sua famiglia. Dario, a casa, imparò anche le tre prime forme del taekwondo di cui diede dimostrazione nella stanza d’attesa del Day Hospital, e grazie alle quali il presidente fondatore di Kids Kicking Cancer, Rabbi Elimelech Goldberg in persona, gli avrebbe consegnato la sua cintura verde. Conoscevamo la data della sua visita in Italia e ci eravamo preparati per l’occasione: eseguimmo una lezione completa davanti a tutti i presenti in sala e, alla fine, di sua iniziativa, Dario si esibì nelle tre forme richieste dalla Federazione Italiana Taekwondo per il conseguimento della cintura verde. Dario è fatto così. Qualsiasi cosa decida di fare, la fa alla perfezione. Tuttora vado spesso a casa di Dario, dove sono stato accolto come uno di famiglia e anche se non facciamo più lezioni di arti marziali, seguo il suo percorso di guarigione da vicino. Dario frequenta ancora settimanalmente l’ospedale e se gli capitano le terapie di mercoledì, il giorno di lezione di KKC al Day Hospital, lui partecipa volentieri alla lezione, e spesso è d’esempio per i più piccoli oppure per i “nuovi arrivati”. Proprio con Dario abbiamo organizzato il bellissimo incontro con il campione Carlo Molfetta, medaglia d’oro di taekwondo alle Olimpiadi di Londra 2012, nell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma.